In ricordo

In ricordo

Alberto Asor Rosa: un ricordo

Monica Cristina Storini

Il 21 dicembre 2022 è venuto a mancare Alberto Asor Rosa. Tale affermazione risuona con un’evidenza dolorosa e, insieme, un senso di vuoto incolmabile in quante e quanti hanno avuto il privilegio di essere sue allieve e suoi allievi. E da allieva voglio ricordarlo.

Ho avuto la fortuna di conoscerlo nel 1981: avevo vent’anni e a mandarmi da lui era stato il mio insegnante di Lettere del liceo (lo stesso istituto, come scoprii alcuni anni dopo, che Alberto aveva frequentato: l’“Augusto” di Roma). Mi disse: «Se vuoi scrivere e studiare seriamente, devi seguire le sue lezioni». Fino ad allora era stato un semplice nome sulla copertina del manuale di scuola – quella Sintesi di storia della letteratura italiana (Firenze, La Nuova Italia, 1979), che ha formato generazioni e generazioni di studenti –, poi fu una voce calma, assertiva, intensa, il cui fascino principale non stava solo nella capacità di rendere comprensibili concetti complessi, ma anche di consentire la percezione del farsi vero e proprio del pensiero. E per imitazione, chi lo seguiva in quelle pause, sostenendo lo sguardo penetrante che attraversava l’aula e coloro che vi si trovavano all’interno, si faceva condurre lungo lo stesso percorso riflessivo, fino all’innegabile evidenza delle conclusioni e al piacere appassionato che sempre regala l’interpretazione dei testi. Perché questa era sicuramente la sua dote più grande in più di cinquant’anni di didattica universitaria: rendere accessibile quella passione, mai disgiunta da un saldo radicamento nell’oggi, nella convinzione che leggere il passato deve soprattutto servire a comprendere il presente, per cambiarlo, modificarlo, trasmetterlo migliore a quante e quanti abiteranno il futuro. Un grande amore: per la letteratura, per la società, per l’umano, come dimostrarono con forza dapprima, nel 1965, quella critica feroce del populismo letterario italiano che è stato, ed è, Scrittori e popolo (Roma, Samonà e Savelli, 1965) –arricchito anni dopo da Scrittori e massa (Torino, Einaudi, 2015) –, visione di cui aveva fatto le spese anche il Pasolini di Ragazzi di vita, e poi le tante riflessioni a seguire sull’identità italiana (Genus italicum. Saggi sulla identità letteraria italiana nel corso del tempo, Torino, Einaudi, 1997).

Acuto, pungente, limpido, aperto, pronto al confronto intellettuale e al conflitto costruttivo e, in definitiva, profondamente tollerante degli sguardi differenti, di cui è stato sempre intimamente curioso, come delle inclinazioni e degli interessi delle giovani generazioni: è così che dalle sue aule sono uscite/i e poi entrate/i nel mondo accademico allieve e allievi profondamente diverse/i fra loro, con profili più filologici, o teorici, o linguistici o antropologici, ma tutte e tutti – o quasi – con la stessa determinazione politica a impegnarsi nel dialogo civile, a fare letteratura per fare, se possibile, anche in minima parte, il mondo.

La didattica, così come la ricerca scientifica, è stata dunque inevitabilmente parte inalienabile della sua pratica politica e se non possiamo dimenticare il politico che è stato – dalla collaborazione a «Quaderni Rossi», «Classe operaia», «Laboratorio politico» e «Mondo Nuovo», alla direzione di «Contropiano» (1968) e poi, dal 1989 alla chiusura, di «Rinascita», all’elezione a deputato (1979-1980), nelle file del Pci, alla corposa saggistica politica – non possiamo neppure passare sotto silenzio quale bacino di riflessione sulla Storia, la cultura e il pensiero italiani siano state le serie di volumi della Letteratura italiana Einaudi (Torino, Einaudi, 1982-1996), che Asor Rosa ideò, progettò e realizzò, dando modo a tante e tanti giovani di iniziare a cimentarsi nell’agone della ricerca scientifica, lo stesso impegno che, qualche anno, dopo lo portò a tentare un’ultima sintesi nei tre volumi della Storia europea della letteratura italiana (Torino, Einaudi, 2009) e poi nei due della Breve storia della letteratura italiana (Torino, Einaudi, 2013).

Per tutto ciò, diveniva inevitabile amare i suoi autori, quelli che hanno accompagnato a lungo la sua attività scientifica: Boccaccio, Ariosto, Guicciardini, Machiavelli, Manzoni, Collodi… e, soprattutto, quel Novecento, che ha rappresentato sicuramente uno dei suoi amori più grandi, dai saggi su Giuseppe Ungaretti (Ungaretti e la cultura romana, con L. De Nardis, L. Piccioni e L. Silori, Roma, Bulzoni, 1983), a Calvino (Stile Calvino. Cinque studi, Torino, Einaudi, 2001), per non dimenticare le prospettive complessive proposte sia in Un altro Novecento (Firenze, La Nuova Italia, 1999), sia in Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo (Torino, Einaudi, 2000).

Non è questa la sede per rammemorare anche la sua produzione narrativa, autobiografica e no, e per la quale l’auspicio è di trovare al più presto critici e interpreti in grado di collocarla convenientemente nella sua contemporaneità.

Fortunatamente, il riconoscimento del valore inestimabile della sua passione e del suo lavoro, Alberto ha avuto modo di vederlo consacrato, ancora vivente, dalla pubblicazione nei «Meridiani», a cura di Luca Marcozzi, delle sue Scritture critiche e d’invenzione (Milano, Mondadori, 2020). Tuttavia, a coloro che vogliano davvero conoscerlo, consiglio di iniziare ascoltando direttamente la forza delle sue parole e dei suoi discorsi, forma di una resilienza consapevole e mai sconfitta, contro il buio e la decadenza dei tempi moderni, di cui è testimonianza Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali (a cura di Simonetta Fiori, Roma-Bari, Laterza, 2009). Ancora più crudele apparirà la perdita di colui che ritengo l’ultimo grande intellettuale a tutto tondo del Novecento.